Nel ‘900 la moda assume un ruolo centrale e produttivo: giunge a diventare a tutti gli effetti un settore portante dell’economia, un efficace mezzo di comunicazione di massa, un territorio di confine tra arte e comunicazione, un serbatoio di immagini e un archivio della memoria in cui a essere celebrato è il corpo.
Rigorosamente da ricordare, solo nel secolo scorso l’industria scopre l’importanza della donna come consumatrice di moda. E’ lo stesso secolo che ha lasciato in eredità al mondo femminile alcuni oggetti e alcuni segni di moda. Alcuni perdureranno, altri si offuscheranno nel ricordo. La percezione è che ciò che è destinato a rimanere sia quello che più si lega a esperienze sensorialmente ed eticamente orientate: segni essenziali (o ricchi di sfumature).
Bikini. 1946. Il mondo è appena uscito dall’incubo della guerra. L’orrore di Hiroshima e Nagasaki è ancora indicibile, ma gli esperimenti atomici ricompaiono questa volta nella veste di esperimenti sottomarini. Teatro: atollo di Bikini bel sud del Pacifico. Nello stesso anno il pellicciaio parigino Jacques Heim battezza “atome” un costume da bagno femminile composto di due pezzi da lui ideato insieme allo stilista Louis Réard.
Per merito di invisibile ma incisivo tam tam tra specialisti di moda, riviste e boutique, nel giro di qualche settimana l’atome viene chiamato “bikini”, quasi a volere “evidenziare in forma metonimica l’associazione tra due esplosioni: quella del corpo femminile in questo indumento contenuto e quella dell’atomo sconvolto dalla fissione“.
Eredi spesso inconsapevoli di questo battesimo, continuiamo a chiamare così un classico della moda femminile da spiaggia, rivisitato in forme diverse come lo string, il tanga, i tessuti imbottiti o lavorati all’uncinetto, e reso celebre da icone dell’immaginario tra le quali finora insuperate restano Brigitte Bardot e Ursula Andress.
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